La definizione cui si fa frequentemente riferimento per descrivere gli ecovillaggi è quella proposta dal sociologo Manuel Oliver, disponibile in una pagina dedicata sul suo sito viverealtrimenti, secondo cui:
“ Gli ecovillaggi sono insediamenti umani che integrano varie attività, non producono danni all’ambiente naturale, si basano sullo sviluppo olistico e spirituale dell’uomo e possono continuare indefinitamente nel tempo”.
L’intenzione di vivere conformemente a un modello di eco- sostenibilità, dalla progettazione delle abitazioni all’approvvigionamento energetico, dai modelli di consumo all’economia di prossimità, è ciò che accomuna i membri di questa declinazione specifica di comunità intenzionale.
Gli elementi fondativi della scelta di far parte di un ecovillaggio sono sostanzialmente due: un ritorno o, quantomeno, una maggiore armonia con la natura e un ritorno alla comunità: un’esigenza vieppiù diffusa a giudicare dalla crescente rete internazionale in cui larga parte di queste realtà è inserita: il GEN (Global Ecovillage Network), che ne annovera ad oggi già diverse migliaia.
L’adesione congiunta alla rete da parte di ecovillaggi e comunità intenzionali fornisce riscontro della profonda sintonia che sussiste fra le due forme di aggregazione in virtù della centralità attribuita da entrambe alla dimensione comunitaria. In effetti l’ecovillaggio non è, come anticipato sopra, che una modalità espressiva della comunità intenzionale (inclusiva anche dei cd “condomini solidali”), definita come nucleo di persone che decidono di vivere insieme e portare avanti un progetto di vita sostenibile, a livello ecologico, sociale, spirituale ed economico ed oggetto di una proposta di legge depositata in commissione Affari Costituzionali alla Camera dei Deputati.
L’ecologismo più o meno radicale, il riconoscersi all’interno di un percorso spirituale comune, ovvero la condivisione di una cultura della prossimità rappresentano, sovente anche con significative contaminazioni, l’ispirazione, il collante di aggregazioni sociali che non devono essere verosimilmente interpretate nel senso dell’utopia. Stante la fragilità, oltre alla discutibilità sul piano etico, del paradigma dominante di produzione e riproduzione sociale, nonché la crisi dei modelli relazionali e affettivi che in esso si inscrivono, forme alternative di innovazione sociale orientate a recuperare ciò che maggiormente il paradigma dominante sembra avere lasciato indietro – l’armonia con la natura e il senso di comunità – possono essere interpretate come prefigurazioni di una “way out” sul piano socio-economico-politico e forse anche esistenziale.
Nemmeno sarebbe verosimilmente opportuno guardare ad esse come a fenomeni involutivi: l’ecovillaggio non ripudia l’innovazione tecnologica, ne fa anzi uno strumento chiave nella misura in cui sia utilizzata in un senso eticamente orientato.
Per certi versi l’ecovillaggio è altresi interpetabile come progetto pionieristico di una rigenerazione che non è solo naturale e sociale ma anche democratica: la comunità si riappropria dei processi decisionali recuperando, in primo luogo, quell’elemento del conflitto che la depoliticizzazione caratteristica della pianificazione urbana in schiava smart city ha tentato (con successo) di silenziare.
La piccola scala, mediamente gli ecovillaggi hanno fra i 50 e i 150 abitanti, aiuta la sperimentazione di nuovi modelli di governance su questioni decisamente più complesse di quelle che il paradigma dominante rimette ai cittadini, per altro non sistematicamente e tipicamente solo per le fasi meno rilevanti del processo decisionale rispetto alla preservazione degli equilibri di potere: se nella città contemporanea i residenti, o più spesso i city users, sono chiamati a decidere fra progetti alternativi di rigenerazione di uno spazio urbano specifico, ovvero il nome da attribuire a un nuovo parco, nell’ecovillaggio il decision making inserisce ad aspetti che potremmo definire “banali, come quello dei servizi relativi alla preparazione della colazione e dei pasti, al riordino e pulizia degli ambienti comuni”, ma anche ad aspetti più complessi “riguardanti la distribuzione degli alloggi, la ripartizione dei costi, l’impiego delle risorse economiche e la scelta delle attività produttive da privilegiare” .
In questa prospettiva ciò che allo stato dell’arte è da alcuni identificato come sacca di resistenza potrebbe rappresentare un’avanguardia nel momento in cui dovesse emergere con chiarezza l’esigenza, oggi diffusa solo a macchia di leopardo e in diversi strati anagrafici e sociali di popolazione, di un mutamento radicale del paradigma urbano e globale di sviluppo.

Prof. Silvio Bolognini
Prof. Straordinario – Università degli Studi eCampus
Novedrate/Como – Padova-Torino-Roma-Napoli-Bari
Palermo-Firenze-Cagliari-Milano

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